Tra un mese e qualche giorno
e compirò 50 anni. La prossimità a questo traguardo, ma anche un filo
inseparabile di nostalgia che ha accompagnato la mia esistenza, sono i motivi
che mi hanno portato a empatizzare con l’articolo di Grognardia: why
I stayed, perché sono ancora qui. Maliszewski si interroga su cosa abbia fatto
sì che, dopo decenni, passi ancora tempo a scrivere e parlare di giochi di
ruolo. Si chiede, in particolare, che fine abbiano fatto gli amici con i quali
condivideva i pomeriggi, da ragazzino, intenti a vivere avventure immaginarie. Quale
sia il motivo che ha portato i più, magari giocatori e master migliori di lui, a
staccare del tutto, lasciarsi alle spalle quell’hobby che amavano tanto. Perché
lui è ancora lì, mentre altri non toccano più i dadi?
Ci sono passioni che ci si cuciono addosso e ci seguono tutta la vita. Altre
che ti appassionano da giovane, perdono completamente di significato in età
adulta. Non ti emozionano più, relegate a un periodo di crescita fisica e
intellettuale alle quali si sono accompagnate. È capitato anche a me, io sono
uno dei traditori. Per dodici anni non ho giocato. Forse era questo verbo –
giocare - il problema. Una parola che si associa al periodo dell’infanzia, un campo di addestramento
per quando si mette la testa a posto e si diventa grandi. Un po’ come quando
andiamo al parco e guardiamo ancora le altalene, è difficile che ci passi per
la testa di salirci sopra. Così era per me, non mi sfiorava l’idea di sedermi di
nuovo a un tavolo apparecchiato di miniature e cibo spazzatura. I miei manuali
erano finiti in un cartone in mansarda, a casa di mia madre. Erano conservati
gelosamente, retaggio di un passato glorioso e spensierato, ma non li avevo più
aperti. Sarebbe stato un capitolo chiuso se, nel 2013, un amico non mi avesse
chiesto di passare una serata a rinverdire i vecchi tempi. La scusa:
festeggiare il 40° anno della defunta TSR. Pur prestandomi, lo avevo avvisato
che non mi divertivo più. Avevo i miei motivi. Ci avevamo provato sporadicamente
altre volte, ed era sempre stato un insuccesso. Per Natale, una tradizione che,
riunendoci, rimetteva in discussione le nostre affinità. Come dicevo, il
risultato era fallimentare. Vecchi amici, ora conoscenti, che continuavano a
giocare come dei ragazzini, con la stessa leggerezza e noncuranza. Un rito che
non poteva aver successo, dal momento che scimmiottava ciò che non eravamo più.
A mio parere è questo il punto centrale della questione: la ripetizione di un gesto lo rende noioso. Occorre rinnovarlo e se non si è in grado di cambiare, in primis come persona, ci si annoia. I giochi di ruolo sono un passatempo di gruppo e se non si è assolutamente sinceri e trasparenti nella propria interpretazione, se non si riesce più a fare quel passo nel mondo fantastico nel quale ti calavi facilmente da giovane, allora non funzionano più. Risultano un esercizio sterile e stereotipato.
Al contrario di James, in questo frangente mi ritengo fortunato, infatti non ne
condivido la nostalgia. Da quel 2013, ci siamo pian piano riamalgamati. Ora una
buona parte dei miei amici di infanzia gioca di nuovo con me. I migliori,
quelli che hanno saputo fare un passo in avanti. Come ho detto, il segreto a
mio parere è proprio caricare il gioco di significati più adulti. Sentimenti
che non conoscevi da ragazzo, nuove visioni di ciò che ci circonda.
Per essere più chiaro farò un esempio. Da ragazzi i nostri personaggi erano
tutti di allineamento buono. Molti anche legale buono. Ciò era dovuto ai nostri
riferimenti di allora. Oggi i nostri alter ego sono per lo più soldati di
ventura o fattucchieri rotti a qualsiasi esperienza. Figure grigie, con blande
speranze e attese. I personaggi lottano più per inerzia, che per un credo. Semplicemente
non sanno fare altro, il loro modo di sentirsi vivi è confrontarsi col mondo e
i suoi pericoli.
È un’ammissione di cambiamento. Il gioco ha il sapore di un nuovo paradigma. Al
tempo stesso è diventato il nostro modo di ritrovarci e riconoscerci. Passare
una serata a cenare assieme, scherzare e scrivere un nuovo capitolo di questa
storia che ormai è rappresentativa di finzione e realtà. Un’occasione per
affermare in mezzo agli altri la nostra nuova personalità, renderla unica. Se
penso a me, in una vita ho contato alcune vittorie e molte sconfitte. Certo non
sono quel ragazzino di dodici anni che pensava di essere speciale. Le mie
storie, come riflesso, sono piene di spelonche umide, morti e tradimenti,
mostri che nascondono un lato molto umano e umani corrotti da interessi e ambiguità.
Spesso la miseria d’animo rende i malvagi più accomodanti della loro
controparte: quei buoni senza macchia e paura che non vogliono sentire ragioni.
Per questa visione dirò sempre grazie a Tiziano Sclavi.
Dubito che trent’anni fa i miei amici si sarebbero trovati a loro agio nelle
strade corrotte di Erelhei-Cinlu, la città degli elfi scuri, un’immensa ciste
nel cuore del Sottosuolo, gomito a gomito con demoni e una lunga lista di
bricconi, ladri e assassini. Alcuni dei loro personaggi hanno apprezzato la
libertà con la quale i drow si esprimono, pur nella drammatica efferatezza che
contraddistingue i loro passatempi.
Nessuno di noi legge più le favole di Cappuccetto Rosso o Biancaneve. Per avere
un minimo di appeal, per intrattenere, un storia ha bisogno di temi familiari:
la fatica, il dolore, la gioia, il sesso, il sacrificio, il tornaconto
personale.
Sono questi i temi che ci riuniscono. Quelli che magari fatichiamo a confessare
in maniera esplicita, e che richiedono ancora oggi una maschera.
In conclusione, può essere che la vita ti porti anche a dimenticarti delle cose
che ami fare. Sommersi da preoccupazioni, incombenze, ritmi al limite del
vivibile spesso crolliamo sul divano. Anche l’idea di rimettersi in moto e
uscire è a volte indigesta. Penso che salvarci anche nella realtà ci sia il
gruppo, nella speranza che nel frattempo si sia emancipato da ruoli e dettami,
rivelando la sua essenza più sincera. Forse gli amici di James l’hanno
dimenticato o, è probabile, hanno trovato metodi diversi per farlo. Nel
maelstrom del gioco pop che popola le piattaforme amate dai più giovani, dove
lo spettacolo e la monetizzazione vengono prima dell’esperienza del gruppo
stesso, trovo che il tavolo fisico sia in qualche modo l’ultima salvezza, un
luogo in grado di esorcizzare una realtà che oggi pare sempre più brutale e senza
regole. Quelle, per fortuna, nei giochi di ruolo permangono e ci danno ancora
qualche sicurezza.

Anch'io ho letto quel pezzo, ma mi è sembrato fosse più centrato sui motivi per cui a lui piace ancora giocare piuttosto che sul rimpianto per gli amici persi per strada.
RispondiEliminaBeato te che da giovane eri circondato da personaggi good, nei miei gruppi pullulavano evil o comunque paraculi, gestirli dal punto di vista del master non era facile e qualche campagna è andata a ramengo (vedi la prima di Ravenloft, Feast of Goblyns: metà dei pg diventati Lord! :D )